Sul protocollo regionale per la ciclopedonalità

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di Giancarlo Romanini

 

È stato approvato a maggio il “Nuovo Protocollo d’Intesa per lo sviluppo del sistema regionale della mobilità ciclopedonale 2015-2017” tra Regione Emilia Romagna da una parte e ANCI, UPI, FIAB, Legambiente, UISP, WWF dall’altra.
Nuovo perché rinnova e rilancia quello precedente del 2009.
E secondo me ne eredita limiti e difetti.
Il primo è nel titolo: mobilità ciclopedonale.
Perché ciclo e pedonale vengono sempre abbinati?
La bicicletta è un veicolo, un mezzo di trasporto.
E se la propulsione che la muove è “esclusivamente umana”, come quando si cammina o si corre, per quanto riguarda le modalità d’uso ha molto di più in comune con gli altri veicoli.
Pur rimanendo un oggetto con peculiarità proprie, tanto distante dal pedone quanto dai veicoli a motore, meravigliosamente spurio, versatile, ambiguo,
l’infrastruttura sulla quale la bicicletta deve circolare è la strada, non certo il marciapiede.
Associare ciclisti e pedoni è conseguenza di un modo di pensare la mobilità ciclabile come un elemento marginale, da relegare in spazi adatti ad un ruolo contemplativo, da mobilità “dolce”, “lenta” e ovviamente “debole”.
E in quanto debole, o, più correttamente – ma non tanto di più – “vulnerabile”, da togliere dalla strada e mettere, perché no?, sui marciapiedi.
Ricordo che qualche anno fa tra le proposte di modifica alle norme per i percorsi ciclabili l’ANCI proponeva di togliere i vincoli alla realizzazione dei ciclopedonali promiscui.
Perché, per la normativa italiana, la promiscuità tra pedoni e velocipedi è una eccezione, da applicare nella realizzazione degli itinerari ciclabili a ben determinate condizioni, che nella stragrande maggioranza dei casi non vengono rispettate, in parte o del tutto, dalle amministrazioni.
Le quali trovano molto facile piazzare l’apposito segnale sul primo marciapiede che capita per trasformarlo in percorso ciclabile, da mettere sul conto della lunghezza delle piste ciclabili, quella che fa classifica nei vari report e che si vende bene ai cicloelettori più ingenui.
La ciclopedonalità è un “errore di concetto” purtroppo ben radicato e rinvenibile in ogni livello di pianificazione direttamente o indirettamente riferito alla ciclabilità.
Altro aspetto che andrebbe rivisto è l’estrema varietà delle iniziative finanziate che hanno, in alcuni casi, scarsa attinenza con la ciclabilità.
Tra gli “interventi/attività” in via di completamento ci sono la realizzazione d’itinerari sicuri casa-scuola, le attività di mobility management nelle ASL regionali e nel comparto fieristico, il bike sharing regionale, l’acquisto di biciclette a pedalata assistita, l’installazione di segnaletica, generici interventi per lo sviluppo e la promozione della mobilità ciclo-pedonale, campagne di sensibilizzazione sul tema della sicurezza stradale.
Nel nuovo protocollo oltre a condivisibili, ma generici, criteri di approccio alla pianificazione della ciclabilità (partecipazione, trasparenza, condivisione, lungimiranza, intermodalità), viene ulteriormente ampliato il ruolo della (pedo)bicicletta attribuendole un ruolo nella valorizzazione eno-gastronomica-culturale-turistica del territorio (“bici e cibo”, la regione come “hub” del cicloturismo e catalizzatrice delle “città del buon vivere”) e addirittura come strumento di ricucitura dello sprawl urbano.
Tanti spunti, tante buone idee, tante buone intenzioni.
Ma tutto piuttosto confuso (lo stile burocratico della scrittura come sempre non aiuta) ed estremamente frammentato; tante iniziative da finanziare, ma con importi di piccola entità.
Perché i soldi che la regione impegna nella ciclopedonalità sono in definitiva pochini.
Capire quanti siano effettivamente quelli già spesi e quelli da spendere non è facile; al momento non sembra disponibile alcun documento riassuntivo in grado di chiarire la questione.
Altro aspetto che nel protocollo non viene affrontato in maniera a mio avviso soddisfacente e che rende impossibile qualsiasi valutazione quali-quantitativa sulle azioni svolte.
Non conforta sapere che, più o meno certi, ci sarebbero 8 milioni di euro da spendere per il triennio 2015-2017, visto che, tanto per fare un esempio, il Biciplan di Mestre prevede di realizzare circa 50 km di percorsi ciclabili con una spesa di 13 milioni di euro in 5 anni.
Quello di Reggio Emilia, che addirittura contiene un quadro economico articolato su quattro profili di spesa (basso, medio, medio-alto, alto) per i percorsi progettati, prevede una rete di 125 km per un costo compreso tra i 20 ed i 25 milioni di euro.
Pochi soldi in tanti interventi, spesso estemporanei e non inseriti in strategie di lungo termine, visto che ben poche amministrazioni locali si sono dotate degli strumenti, sia obbligatori che facoltativi, per la gestione del traffico e ancor meno della ciclabilità.
Forse sarebbe più opportuno condizionare l’erogazione di finanziamenti alla presenza di piani della mobilità, ed in particolare della mobilità ciclistica, nei quali siano chiaramente individuati obbiettivi precisi di riduzione del traffico veicolare motorizzato privato ed aumento di quello ciclabile.
Qualcosa di simile viene vagheggiato nel nuovo protocollo, ma rimandato ad imprecisati “futuri passaggi della pianificazione regionale” per definire un “target di mobilità del 50% per gli spostamenti individuali in auto” con “conseguente adeguato stanziamento di risorse regionali per l’implementazione di detto obiettivo”.
Eppoi chi e come misura la realizzazione di questo ed altri “target”?
Definire le modalità di raccolta, elaborazione e pubblicizzazione dei dati è fondamentale per l’attività delle associazioni, e delle amministrazioni.
Forse era il momento di introdurre la questione in maniera più stringente, senza aspettare il futuro “Tavolo permanente per la mobilità ciclopedonale”.
Intanto le varie amministrazioni comunali e provinciali fanno tutte un po’ a modo loro (quando fanno), fornendo numeri sulla ripartizione modale, sull’estensione delle reti, sull’incidentalità, raccolti in maniera parziale e disomogenea, e comunque non verificabile.
I firmatari del protocollo si dovrebbero fare garanti della sua applicazione, monitorando le azioni intraprese, divulgando le fasi del suo svolgimento, “in contraddittorio” con l’ente regionale, potendo accedere liberamenete ai dati.
Così magari nel 2017, contestualmente al rinnovo del protocollo, si potrà presentare il report del trienno precedente.
Tanto per capire a chi e quanto serve davvero un accordo di questo tipo.